LA PICCOLA GRAZIA E IL PRINCIPE AMEDEO By MARIO ZACCHERINI
admin | Jan 27, 2013 | Comments 0
Nel ricordare la Shoah si ravviva il ricordo della tragedia ebraica in maniera collettiva, spesso senza raccontare le storie dei perseguitati, dando nomi, cognomi, percorsi di vita vissuti nel quotidiano.
L’immane tragedia non si è sviluppata solo nei campi di sterminio, ma anche nella vita quotidiana, nello stigma sociale incoraggiato dal regime dopo il 1938 e dopo le famigerate “leggi razziali”, nell’espulsione dai luoghi di lavori, dalla creazione di un vero e proprio regime dell’apartheid.
Nelle prossime righe la storia di una bambina di Imola di nome Grazia Fiorentino, la fotografia della sua vita quotidiana, molto probabilmente destinata a concludersi in un lager, e del coraggio di un giovane di 23 anni di nome Amedeo Ruggi (futuro Sindaco di Imola).
Prima di entrare nel dettaglio della storia, che accomuna Grazia e Amedeo, facciamo un piccolo passo indietro per illustrare la situazione familiare della piccola imolese e il clima che si viveva ad Imola in quegli anni attingendo a piene mani da una ricerca del 2005 eseguita da un gruppo di studenti dalle classi 4°D e 4°E liceo linguistico Alessandro da Imola coordinati dalla Prof.ssa Elena Romito dal titolo “Ebrei a Imola: un laboratorio in archivio sulla Shoah (1938-1945)
“L’analisi dei documenti d’archivio relativi all’espulsione degli ebrei da enti e cariche pubbliche ci ha consentito di toccare con mano la gravità di quegli atti che violarono i diritti delle persone di razza ebraica. Per individuare i documenti da consultare ci siamo servite del testo di Andrea Ferri, Dal regno al regime. Ebrei imolesi dall’unità d’Italia alle leggi razziali, Imola, La mandragora, 1998, e della consulenza del personale dell’Archivio storico comunale di Imola.
La famiglia Fiorentino era l’unica famiglia ebrea residente a Imola in quell’epoca e svolgeva attività di commercio di tessuti ricoprendo allo stesso tempo diverse cariche pubbliche. Dai due fratelli Ferruccio e Arturo si origina un nucleo familiare molto articolato, come si può vedere dai due alberi genealogici tratti dal testo di A. Ferri succitato. Il primo nucleo discende da Ferruccio Fiorentino e Emma Passigli ed è assai ramificato. Tra i 4 figli, ritroviamo Armando Fiorentino che è il protagonista di uno dei documenti consultati. Il secondo nucleo, discendente dalla famiglia di Arturo Salomone Fiorentino è ancora più complesso. Sposato con Emma Tedeschi, ebbero tre figli, Silvia, Cesare e Olga. Cesare sposò Matilde Gallichi ed ebbero una figlia, Grazia Fiorentino, tuttora in vita e residente a Bologna. Madre e figlia sono le protagoniste dei documenti che abbiamo analizzato.
All’epoca delle leggi razziali la famiglia Fiorentino venne travolta da quei terribili provvedimenti che riguardavano le persone di razza ebraica. Le leggi razziali, emanate nel 1938 col nome di “Provvedimenti per la difesa della Razza”, prevedevano l’espulsione:
- dalla scuola sia come alunni che come insegnanti
- dalle forze armate
- dal PNF ( Partito Nazionale Fascista )
- dalla Pubblica Amministrazione
- dal mondo dello spettacolo
Le leggi razziali prevedevano inoltre i seguenti divieti per le famiglie ebree:
- non potevano avere domestici di razza ariana
- non potevano avere radio
- non potevano andare in villeggiatura
Gradatamente tra il 1938 e il 1942 vennero sanciti: l’espulsione totale degli ebrei dall’esercito, il divieto di pubblicazione e rappresentazione di libri, testi, musiche di ebrei; l’espulsione dalle libere professioni; la progressiva limitazione delle attività commerciali, degli impieghi presso ditte private, delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro. Inoltre venne abolita l’adozione di testi scolastici scritti o pubblicati da ebrei, mappe o atlanti realizzati da ebrei e cosa ancora più grave, se possibile, fu impedito agli ebrei di apprendere e di insegnare.
I documenti d’archivio consultati testimoniano alcuni episodi di persecuzione dei diritti dei cittadini ebrei imolesi: l’espulsione di Armando Fiorentino dal Consiglio d’Amministrazione della scuola secondaria “Regina Elena”, l’espulsione di Matilde Gallicchi dal Consiglio Amministrativo della Biblioteca Ponti di Imola, l’espulsione della piccola Grazia Fiorentino dalle scuole elementari Carducci ed infine il cambiamento del nome dell’attuale Vicolo de’ Giudei, nel centro imolese, in Via Alfeo Albertazzi, volontario caduto in Spagna. Ci hanno colpito due particolari: innanzitutto il fatto che, proprio in una delle biblioteche della nostra città e nelle aule in cui noi ogni giorno ci muoviamo, si siano consumati alcuni episodi di persecuzione dei diritti dei cittadini ebrei italiani; inoltre vedere i documenti originali ha avuto un effetto immediato: abbiamo toccato con mano che gli eventi di cui gli storici ci hanno parlato sono veramente accaduti a persone come noi, che si muovevano in questi stessi spazi, e che non hanno potuto fare altro che subire una legge ingiusta.”
Ricordiamo i nomi degli studenti che hanno permesso a tutti noi di venire a conoscenza della storia della piccola Grazia e delle condizioni di vita nella nostra città: CINZIA BARBERIO, LUANA GEMELLI, SARA RAFFINI, ELEONORA IAMMARINO, ROSSELLA LIA, GIORGIA GEMINIANI, GIANLUCA RAVANELLI, AIRISH GUIDI, MARIA GIOVANNA DELLA VOLPE, MARIANGELA CIRASOLE, GIULIA DOVADOLI, ALICE SAMORÌ, SARA BOSELLI, SARA SAVORANI, STEFANIA NOE’, CORINNA POSSELT.
La storia e la vita di Grazia Fiorentino cambiano quando, come lei racconta, una persona la porta in salvo in Svizzera. Il testimonianza è tratta dal sito Gariwo la foresta dei giusti ed è raggiungibile www.gariwo.net/pagina.php?id=1525
Sono nata nell’unica famiglia ebrea di Imola e nel novembre del 1938 sono stata l’unica bambina ebrea cacciata dalla scuola elementare a otto anni. Con grande cautela i miei genitori hanno cercato di spiegarmene il perché, ma per me era incomprensibile capirne le ragioni. Da quel momento e per tutte le elementari ho avuto in casa una paziente signora anziana, maestra in pensione, di famiglia socialista, che tutti i giorni mi faceva lezione, ma ho perso quasi tutte le mie compagne di classe, salvo pochissime, che hanno continuato a venire a giocare con me. Ogni anno mi presentavo come privatista agli esami per passare alla classe successiva e, come un’appestata, ero tenuta in un banco a parte. Due anni di scuola media li ho fatti con la mamma, laureata in lettere, e con una ragazza universitaria di matematica per le materie scientifiche. Nell’autunno del 1943 la mia famiglia si trovava già da mesi sfollata per paura dei bombardamenti in un paesino a una decina di chilometri da Imola, quando i tedeschi hanno saccheggiato la nostra casa; mio padre ha deciso che non fosse più sicuro rimanere lì. Per circa due mesi abbiamo trovato rifugio sugli Appennini verso la Toscana, in casa di contadini; poi i fascisti hanno arrestato due nostri cugini nascosti a pochi chilometri da noi (uno di loro è poi morto ad Auschwitz) e così nostro padre ha preso la decisione di seguire la strada indicata da sua sorella maggiore già partita per la Svizzera e tentare anche noi la fuga. Ci siamo spostati in pianura a casa della donna di servizio di mia nonna, in attesa di raggiungere in treno Como e la frontiera, ma la cosa non era facile perché non avevamo documenti falsi.
A un certo punto ci venne a trovare Amedeo Ruggi, un giovane ventitreenne, nipote del marito cattolico della sorella minore di papà. Ruggi, che odiava i fascisti da quando gli avevano picchiato a morte il padre e reso sordo lo zio, con coraggio si occupò della nostra partenza. Dopo alcuni giorni si presentò indossando una divisa militare, in compagnia di un autista su un’automobile con cui raggiungemmo la stazione ferroviaria di Modena quando era ormai buio. L’unico treno per Milano era già pieno zeppo, così salimmo su un carro merci affollato di persone sedute per terra. Passammo ore in attesa della partenza del treno, bloccato da un bombardamento sulla linea ferroviaria, e mentre aspettavamo fu rubato un portafoglio a un passeggero. Nel buio una voce disse che bisognava chiamare la ronda tedesca che era sulla banchina, ma Ruggi con molta prontezza replicò di essere un ufficiale e che ci avrebbe pensato lui a ritrovare il portafogli: che infatti poco dopo saltò fuori, con grande sollievo per tutti noi.
Dopo un viaggio estenuante arrivammo a Como a mattina inoltrata e dovemmo aspettare il pomeriggio per trasferirci nel paese di S. Fermo, dove avevamo appuntamento con il contrabbandiere che ci doveva guidare al confine. La giornata passò tra una panchina, una trattoria e tanto camminare a casaccio, fino alla partenza su una macchina di servizio pubblico. Dopo pochi chilometri l’autista fermò l’auto vicino a una caserma e ricattò mio padre dicendo: “ o mi date diecimila lire o vi denuncio, perché ho capito cosa state per fare”. Ruggi gli si buttò addosso per picchiarlo, ma mio padre preferì dargli i soldi per poter proseguire. Arrivati al casolare indicato, una donna ci infilò in un ovile e ci disse di aspettare. Restammo così parecchie ore, senza mangiare e con l’angoscia di essere caduti in un tranello, quando finalmente arrivò a prenderci un uomo con un impermeabile e un passamontagna. Dovevamo camminare per un’ora in un bosco senza mai parlare – ci spiegò – e poi scivolare sotto la rete di confine che lui stesso avrebbe alzato quel tanto da permetterci di passare uno alla volta senza far suonare i campanelli d’allarme che vi erano agganciati. Al di là della rete c’erano duecento metri di “terra di nessuno” dove i tedeschi potevano sparare e quindi dovevamo correre senza girarci anche se sentivamo i cani lupo abbaiare o degli spari. Ci affrettammo allora a partire, dopo aver abbracciato Ruggi, al quale mio padre consegnò metà di un biglietto di cui tenne l’altra metà, e i soldi pattuiti con il contrabbandiere, che doveva essere pagato solo dopo averci portato in salvo: al suo ritorno avrebbe consegnato a Ruggi la metà del biglietto tenuto da mio padre come conferma. Io sono stata la prima a passare e a correre a perdifiato per quei duecento metri, finendo addosso a una sentinella svizzera. Poi passò mia madre e alla fine mio padre, che diede il pezzetto di carta al contrabbandiere, da consegnare a Ruggi per ricevere il compenso pattuito. Finalmente eravamo in salvo!
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